Fino ai 60 anni mi sembrava semplicemente di dover cambiare un numero, ora, ogni tanto, vengo presa dalla paranoia dell’invecchiare.
Solo ogni tanto, però.
La voglia di imparare, di fare cose nuove, la capacità di fare cavolate, sono assolutamente immutate.
Il rapporto col tempo è cambiato con la malattia, quindi l’età non c’entra.
Poi, inesorabilmente, mi sento vecchia quando mi confronto con la tecnologia, che per me è un servizio, come l’auto, la TV, il telefonino, e non mi rassegno al concetto che sia l’elemento dominante nelle relazioni con le persone o col mondo.
Molti amici sono in pensione, e gli argomenti di conversazione inesorabilemnte cambiano: gli acciacchi dominano laddove un tempo erano i casini con capi, colleghi, clienti.
E poi c’è un altro elemento, quello che fa più male: come ti vedono gli altri.
Ho il vantaggio di non essere mai stata abbastanza bella da dover rimpiangere, ora, i segni dell’età. Da tempo mi sono adeguata, in ambito professionale, ad essere chiamata Carla invece che Dottoressa Fiorentini, né mi ferisce, oggi, l’essere chiamata signora.
Mi ferisce, invece, quella consapevolezza di essere spesso snobbata. Non mi facilita la forte empatia che ho sempre avuto, e negli anni ho imparato a gestire. Li sento e li vedo, i pensieri che frullano. Cosa vuole quella lì: non è della nostra generazione, è obsoleta!
A volte preferirei capire che mi ritengono stronza, antipatica: almeno quello sarebbe una mia responsabilità. Ma sull’età non posso agire, a meno di non negarla, falsificare i dati. Ma questo, oltre ad essere complicato, contravviene tutti i miei principi di coerenza tra ciò che sono, ciò che faccio e ciò che dico.
Ecco, in fondo il problema è lì: io penso ancora di cambiare età, ma il mondo sa che sto invecchiando.